La legge del più forte varrà per tutto (per i valori etici, la politica, il governo, i costumi, la religione e, perfino, la lingua). Per tutto si genera una sorta di scontro darwiniano e tutto dipende dall’esito della lotta fra le forze in campo (MATTELART 1998: 198). Ma, attenzione! La legge della forza è insicura e mutevole, anche se spesso gli uomini sembrano dimenticarsene. Lo stesso Tucidide, che pure, come abbiamo visto, approvava il principio della forza, si rendeva conto dei suoi limiti, come traspare nel racconto della famosa vicenda che oppose gli Ateniesi agli abitanti dell’isola di Melo (V, 85-112). Nella sostanza, Tucidide nota che i rapporti di forza possono cambiare in modo imprevedibile a causa della fortuna e che un impero basato solo sulla forza non può durare. Lo dirà anche Seneca: “A chiunque può accadere quel che accade a tutti” (
Consolazione a Marcia 9,5). Oggi gli Ateniesi impongono la loro volontà sui Meli perché sono i più forti; domani la stessa sorte potrebbe toccare a loro ad opera dei Meli.
La Roma imperiale non sa cogliere questa verità e, dimentica di essere stata civilizzata dai vinti greci, “si considera il solo Stato che ci sia al mondo e s’identifica con il mondo civilizzato, umanizzato” (VEYNE 1993: 405), mentre crede che tutti gli altri popoli siano barbari e diventino civili nella misura in cui si sottomettono a Roma e abbracciano il suo modello culturale. I contemporanei di Augusto scoprono che il mondo ha raggiunto un livello di prosperità fino ad allora ignoto e il loro pensiero si articola “intorno all’idea di un ieri barbaro e di un oggi civilizzato” (VEYNE 1993: 410). Ma anche questa civiltà dovrà imboccare la via del tramonto e sarà spazzato via dai rozzi barbari. E lo stesso accadrà alla blasonata Cina per opera dei mongoli, e a tutte le altre potenze ad opera di altre potenze. Nessuna potenza militare e nessuna cultura, infatti, hanno resistito alla prova del tempo e tutte hanno dovuto cedere il passo a nuove potenze militari e a nuove culture.
Eppure, l’esperienza ci insegna che non c’è vicenda umana che non sia sottoposta all’azione beffarda della fortuna. Noi cerchiamo di fare le scelte atte a far sì che le cose vadano in un certo modo e poi, indipendentemente dalla nostra volontà, quelle cose cominciano a prendere una piega del tutto imprevista, che ci costringe a cambiare i nostri piani, a fare altre scelte e a porci altri obiettivi. Ma ecco che emerge un altro imprevisto, e tutto ricomincia. Se ciascuno di noi guarda indietro nel tempo, si può accorgere di quanto la sua vita avrebbe potuto essere diversa da quella che è stata. Un indirizzo scolastico piuttosto che un altro, un tipo di lavoro, un matrimonio, un investimento, un incidente, una malattia, un incontro, una legge, e tanto altro ancora, sono in grado di cambiare, in ogni momento, il corso delle nostre esistenze, e tutto ciò anche senza un rilevante contributo da parte nostra.
Gli antichi conoscevano bene questa realtà, tanto da fare della fortuna un ente personale, provvisto di volontà, una vera e propria divinità, chiamata, appunto, Fortuna (o Caso o Destino), alla quale attribuivano il potere di modificare il corso prevedibile degli eventi umani. Nel lungo corso dei tempi l’uomo ha creduto che la Fortuna avesse una sua logica e che fosse governata da leggi, e ha provato a scoprire queste leggi, in modo da poterle controllare, ma finora non c’è riuscito e ha dovuto rassegnarsi a concludere che la Fortuna è cieca, ossia del tutto imprevedibile. L’uomo però non accetta le strade senza uscita e non può fare a meno di sperare che, in qualche modo, lui possa controllare il corso della storia. Ed ecco che si sono affermati gli sciamani, i profeti e gli oracoli, ossia coloro che parlano con la bocca di un dio, o gli aruspici che, con le loro arti, si ritiene sappiano cogliere da che parte sta la Fortuna, o i maghi, che si suppone siano capaci di rimuovere una maledizione e leggere il futuro. Ed ecco che si diffonde anche l’uso di oggetti e riti scaramantici, gesti superstiziosi, atti di culto, formule, sacrifici e preghiere, il cui scopo è quello di propiziarsi la buona sorte e allontanare il male.
Ma tutto è vano e i fatti continuano a dimostrare che il corso degli eventi delle nostre vite e della storia continuerà ad essere, in buona parte, imprevedibile e al di fuori del nostro controllo. Ciò vuol dire che il racconto dei fatti che noi leggiamo nei libri di storia avrebbero potuto svolgersi in modo diverso, con conseguenze difficili da immaginare. Queste considerazioni valgono anche nel caso della guerra. Ed è difficile, infatti, che un condottiero possa avere la certezza assoluta di affermarsi sul nemico, tante e tali sono le variabili in gioco. Di casi di mancata vittoria del più forte o di affermazione del più debole è costellata la storia, a dimostrazione che non è mai prevedibile con matematica certezza l’esito di una guerra. Riportiamo degli esempi.
Nel 701, dopo che il re assiro Sennacherib aveva avuto la meglio su una colazione di egiziani, fenici, filistei ed ebrei, aveva via libera per entrare a Gerusalemme e abbattere il regno di Giuda, e invece si limitò a lasciare sul trono Ezechia, come suo fedele vassallo. Se, in quella occasione, il regno di Giuda fosse caduto, “l’ebraismo sarebbe scomparso dalla faccia della terra e le due religioni da esse derivate, cristianesimo e Islam, non sarebbero forse venute alla luce” (COWLEY 2003: 15). E invece, fu proprio quel fatto imprevisto che, prestandosi ad una interpretazione miracolistica, finì per rafforzare la fede degli ebrei nel loro dio e costituì la base del successivo sviluppo della loro religione.
Un altro caso ci viene offerto dalla battaglia di Thymbra (546 a.C.), che vide opposto Creso, ricco e potente re della Lidia, contro il più modesto re persiano, Ciro. Nonostante che le forze in campo di Creso fossero più numerose, la vittoria arrise a Ciro e fu in parte certamente legata alla sua abilità di stratega, oltre che a fattori tecnici (per la prima volta in quella battaglia Ciro ricorreva all’impiego di cammelli, che facevano spaventare i cavalli dei nemici) e alla fortuna (sarebbe bastata una malattia o una ferita per togliere di mezzo Ciro e dare la vittoria al nemico). Quella vittoria non solo offrì a Ciro la possibilità di controllare le vaste ricchezze della Lidia, ma anche quella di creare le condizioni per la fondazione di un grande impero, quello persiano, e di una grande dinastia, quella degli Achemenidi.
Alla vigilia della seconda guerra greco-persiana, che vedeva contrapposti alcune piccole e litigiose poleis elleniche al Grande Re persiano, che marciava alla testa di un possente esercito di terra e di mare, superiore numericamente almeno di tre volte, nessuno avrebbe potuto pronosticare che la guerra si sarebbe conclusa col trionfo di Atene. Se il modesto esercito di Milziade non avesse fermato l’avanzata delle preponderanti forze di un impero persiano in fase di espansione (Maratona, 490 a.C.) e la flotta greca non avesse sbaragliato quella nemica (Salamina 480), i persiani avrebbero potuto dilagare in Europa, con conseguenze imprevedibili, e non solo non si sarebbe affermata la democrazia ateniese, ma neppure avrebbe potuto svilupparsi la straordinaria cultura greca e, di conseguenza, non sarebbe nemmeno nata la civiltà occidentale, che da quella deriva.
Quando il poco più che ventenne Alessandro, alla testa di un modesto esercito, partì alla conquista dell’immenso impero persiano, la sua doveva essere considerata l’azione di un temerario votata ad un sicuro insuccesso, una specie di folle e inspiegabile suicidio collettivo. E, in effetti, in più occasioni, quel giovane temerario rischiò di morire per mano dei nemici, e, nella battaglia conclusiva, che lo vedeva opposto al molto più numeroso esercito di Dario III, potè vincere solo grazie alla pochezza e alla codardia del re persiano. Senza una grande dose di fortuna, Alessandro non avrebbe potuto portare a termine quell’impresa con successo, e, senza di essa, la cultura greca non si sarebbe diffusa verso Oriente.
Si pensi ai sorprendenti successi di Annibale contro i romani e all’inspiegabile esitazione del generale cartaginese, che gli precluse la vittoria finale. Se Annibale avesse vinto, Cartagine sarebbe divenuta la superpotenza in Occidente e Roma sarebbe scomparsa dai libri di storia.
Senza i favori della fortuna non sarebbe stato possibile a Giulio Cesare conquistare la Gallia e, che presentava insidie di ogni tipo, sconfiggere Pompeo, che disponeva di forze ben maggiori. Senza le vittorie di Cesare, forse Roma sarebbe rimasta una repubblica.
Imprevedibile e gravida di conseguenze fu anche la disfatta subita dal generale romano Quintilio Varo ad opera dei germani nella selva di Teutoburgo (9 d.C.), che arrestò per sempre le mire espansionistiche di Roma a nordest. La civilizzazione della Germania avrebbe potuto cambiare il corso della storia.
Costantino fu una di quelle rare figure in grado di imprimere un nuovo corso alla storia. Dotato di uno smisurato coraggio, di un’illimitata fiducia in se stesso e di un’ambizione senza fine, unite ad una raffinata intelligenza strategica sul piano militare e ad uno straordinario fiuto politico, dovette comunque rischiare molto e, senza fortuna, non sarebbe riuscito a sbarazzarsi dei suoi nemici e a diventare supremo signore dell’impero, né sarebbe stato facile per la religione cristiana prevalere sul paganesimo.
Sorprendenti furono l’esito e le conseguenze di un modesto scontro avvenuto a Badr, nel 624, fra trecento medinesi guidati da Maometto e novecento meccani. Grazie alla vittoria di Maometto, che avvenne in un momento delicato della sua vita, molte tribù locali si unirono al profeta, dando inizio di fatto alla diffusione della religione islamica nel mondo.
Nel 1242 fu per puro caso che l’Europa scampò all’assalto dei mongoli i quali, quando si trovavano già alle porte di Vienna, furono fortunatamente richiamati nella loro patria a causa della morte del Gran Khan. Se così non fosse stato, forse i mongoli avrebbero potuto unificare in un’unica cultura l’intera Eurasia.
Lo stesso accadde nel 1529, quando le armate ottomane al seguito di Solimano il Magnifico furono attardate e indebolite da una pioggia insolitamente intensa e persistente, che ne impedì l’avanzata in Europa (COWLEY 2003: 113-26).
Quando scoppiò la rivolta delle Colonie americane nei confronti della madre patria, i ribelli avevano ben poche probabilità di vincere. La guerra che ne nacque (1775-1783) fu, però, un susseguirsi di fatti imprevisti, che finirono per condizionare gli eventi e volgersi a favore dei rivoltosi. “Vi sono stati fin troppi momenti in cui la causa dei patrioti ha vacillato sull’orlo del baratro, ed è stata salvata da incidenti o coincidenze quanto mai improbabili o dalle scelte fatte in fretta da uomini nello slancio del combattimento” (COWLEY 2003: 163). Se Washington avesse perso non sarebbero nati gli Stati Uniti d’America, che da oltre un secolo giocano il ruolo di prima potenza mondiale e appaiono in grado di condizionare le vicende politiche ed economiche dell’intero pianeta.
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna, per esempio, citando alcuni successi militari di Napoleone che furono conseguiti contro ogni ragionevole pronostico, ma ciò non aggiungerebbe nulla alla nostra conclusione, che è la seguente: se è vero che sono i rapporti di forza a stabilire chi deve comandare, è anche vero che non sempre vince chi ha i favori del pronostico. Gli eventi della storia appaiono dominati dall’incertezza, un’incertezza che non riguarda solo l’esito di una battaglia o di una guerra, ma anche la stabilità dei risultati conseguiti. Ebbene, nonostante questi evidenti limiti, la forza è sempre stata, e continua ad essere, in primo piano. È vero che non sempre vince il più forte, ma è anche vero che chi vince è, per definizione, il più forte e può imporre la sua legge.