lunedì 10 agosto 2009

16. Un mondo ingiusto a rischio di autodistruzione

Un ordine mondiale fondato su rapporti di forza è necessariamente ingiusto e, come tutti i sistemi ingiusti, privilegia alcuni a discapito di altri.
Il discrimine dell’ingiustizia non si limita nei rapporti fra Stati, ma si estende anche ai rapporti fra i membri di un medesimo Stato, dove si costituiscono due ben distinte classi di cittadini: una minoranza di ricchi, che, attraverso il controllo delle risorse economiche e militari, dettano la loro legge a livello nazionale e internazionale, e una maggioranza di poveri, destinati a subire ed essere sfruttati.
La pace mondiale dipenderà dalla capacità della superpotenza americana di mantenere in essere il netto divario delle forze in campo nei confronti dei paesi anti-americani, soprattutto islamici. Ma, quando, per un motivo o per l’altro, il divario si dovesse colmare, quando cioè tutti i principali paesi del pianeta disporranno di ordigni nucleari (ed è solo questione di tempo), a meno che gli Usa non si siano dotati a loro volta di un efficace scudo spaziale, il rischio di una guerra mondiale nucleare si fa concreto e, insieme ad esso, il rischio del genocidio dell’intera specie umana.
La conclusione di questo capitolo non che essere profondamente amara. Un mondo dipendente dai rapporti di forza è condannato a vivere in un sistema ingiusto, e con un unico esito obbligato: il suicidio generale, la distruzione assoluta, l’annientamento del genere umano.

15. Il caso Bush: la forza in primo piano

La guerra mossa dal presidente americano Bush all’Iraq di Saddam (2003), nonostante la volontà contraria dell’Onu, rappresenta una chiara dimostrazione dell’assunto che, senza la forza delle armi, l’America non avrebbe avuto alcuna possibilità di imporre la sua «superiore» cultura all’Iraq. Allo stesso modo è lecito credere che, a parti invertite, se cioè fosse stato l’Iraq a disporre di una schiacciante superiorità militare, sarebbe stato Bush a dover subire l’azione civilizzatrice di Saddam. Un Saddam più forte non avrebbe esitato a sostenere la superiorità della propria cultura e a proclamarsi benemerito paladino dell’Islam, l’uomo buono e giusto che combatte contro l’asse del male, ossia contro la democrazia capitalistica di Bush e dei suoi alleati. Ciò basta a dimostrare che non è possibile dimostrare, col semplice ragionamento, la superiorità di un sistema culturale rispetto ad un altro. Infatti, finché dietro le parole c’è la forza, spesso è questa che stabilisce le ragioni e i torti, le gerarchie delle culture e le norme del diritto. Il fatto è che pochi sono disposti ad accettare la superiorità delle idee di un altro, a meno che non siano indotti a farlo con la forza, e pertanto, chiunque ritenga di essere rappresentante di una cultura «superiore» meritevole di essere condivisa da tutti gli altri con le buone o con le cattive, è un illuso.
Se Bush non avesse avuto una forza militare superiore, non avrebbe potuto permettersi di esprimere giudizi perentori sul livello tecnico e morale di paesi diversi dal suo, non avrebbe potuto permettersi di definire «canaglia» quegli Stati che volevano rimanere legati ai propri valori e non accettavano di americanizzarsi. Se Bush non avesse avuto le portaerei, i bombardieri, i missili e le armi atomiche, certo non avrebbe osato affermare pubblicamente la propria volontà di esportare il «superiore» modello capitalistico americano alle popolazioni di fede islamica o ai paesi comunisti.
Oggi, grazie proprio alla propria superiorità militare, gli Usa hanno potuto permettersi di introdurre nel lessico della politica un’idea che mai in precedenza un uomo avrebbe osato immaginare: l’idea di «guerra preventiva», ossia la facoltà di alcune nazioni di intentare unilateralmente un’azione di guerra contro un’altra nazione prima che questa diventi troppo pericolosa. Il primo conflitto contro l’Iraq non è stato il solo in tal senso. Secondo Krippendorff, delle guerre che gli Usa hanno condotto contro l’Inghilterra (1812), il Messico (1846-8), la Spagna (1898), in occasione della prima (1917-8) e seconda guerra mondiale (1941-5), la Corea (1950-2), il Vietnam (1960-75), nessuna era una guerra a difesa dell’integrità fisica e politica del proprio paese (2008: 112). Ora, se una guerra non viene mossa a scopo di difesa, è evidente che viene mossa per altre ragioni che, il più delle volte, sono ragioni economiche e di potere. Per quanto possa apparire strano, le guerre contemporanee evocano le guerre di razzia che clan e tribù si muovevano migliaia di anni fa. “L’uso della forza per appropriarsi della ricchezza non è cessato con l’età della macchina a vapore” (Toffler 1991: 52). Il che sta a significare che l’uomo impara poco dalle sue esperienze.
Da parte loro, oggi, i paesi «deboli» devono scegliere fra due possibili alternative: o si piegano alla forza americana e accettano le regole della loro democrazia, oppure mostrano i denti e resistono, con tutti i rischi del caso, come embarghi, colpi di Stato, attacchi armati, esclusione dai giri che contano. Generalmente, la prima alternativa costituisce una scelta obbligata per i paesi poveri, a basso tenore di organizzazione ed istruzione, ma, difficilmente, un paese, islamico o comunista che sia, ricco e industrializzato, accetterà di rinnegare le proprie radici culturali senza lottare. Anzi, difficilmente, un paese, islamico o comunista, ricco e industrializzato, accetterà di essere considerato di livello culturale inferiore e rinuncerà non solo a resistere, ma anche a dimostrare la propria «superiorità» e a proporsi come cultura mondiale egemone in alternativa a quella americana. E lo può fare in due modi diversi: o, come stanno facendo Iran e Corea del Nord, attraverso una specifica politica di governo, che renda manifesta la propria volontà di dotarsi di armamenti nucleari, allo scopo di cautelarsi da eventuali azioni armate da parte degli Stati Uniti e, quindi, almeno di preservare il proprio sistema politico-culturale; oppure, com’è il caso di Afghanistan e Cecenia, favorendo lo sviluppo di organizzazioni terroristiche, con ramificazioni a livello internazionale. Nel caso dell’organizzazione terroristica, lo scopo principale non è tanto quello di cautelare un paese da eventuali azioni armate da parte degli Stati Uniti, quanto quello di mandare in crisi, indebolire e, in un secondo tempo, abbattere il sistema americano per poi sostituirlo con un altro sistema.

14. La forza va ostentata e celebrata

I grandi sovrani di tutti i tempi e di tutti i luoghi sono stati ben consapevoli dell’importanza della forza, tanto da avvertire il bisogno di ostentarla e celebrarla. Se i miei competitori sanno che dispongo di un esercito numeroso, ben equipaggiato, ben addestrato e guidato da comandanti capaci, difficilmente oseranno attaccarmi e, più probabilmente, saranno disposti a sottomettersi senza combattere o ad offrirmi la loro alleanza. Rientra in questa logica il ricorso alle parate militari o il desiderio, da parte dei grandi condottieri, di farsi accompagnare, nel corso delle loro campagne militari, da esperti cronisti, col compito di immortalare le loro vittorie e di celebrare le loro virtù. Lo scopo ultimo è quello di portare alla pubblica conoscenza l’eccelso valore del condottiero, la sua inflessibilità con chi gli si oppone e la sua misericordia con chi è disposto a piegarsi al suo volere, la sua abilità nel condurre l’esercito e la sua giustizia nell’amministrare il suo popolo, la sua forza unita alla fortuna, a testimonianza del favore degli dèi, insomma la sua legittimità al comando. Pare che il primo a fare uso di cronisti sia stato il faraone Thutmosi III in occasione della battaglia di Megiddo contro il re di Qadesh (1479 a.C.), che consentì al faraone di estendere i confini del suo impero e di incamerare ingenti bottini (DAVIS 2003: 11-5).

13. Guerra e diritto

Non c’è diritto senza forza. Ce lo hanno ripetuto incessantemente, da Cicerone a Bobbio. È vero: se non si dispone di una forza adeguata, non si può imporre il rispetto della legge e, quindi, non può esserci un diritto. Ma c’è un limite a questa forza. Le armi di distruzioni di massa non servono al diritto: servono alla politica di potenza. Il diritto era adeguatamente supportato dalla forza anche nel mondo antico, ancor prima che gli uomini avessero imparato a lavorare il ferro. Se oggi decidessimo di smantellare tutti gli arsenali atomici, non per questo ci mancherebbe la forza necessaria a garantire il rispetto del diritto. Al servizio del diritto è sufficiente una forza modesta. La corsa agli armamenti in cui, da qualche secolo, sono impegnati gli Stati è finalizzata alla guerra, che, a sua volta, è finalizzata alla conquista e/o al predominio. Chi è più forte comanda e impone agli altri le sue norme e i suoi valori. Nietzsche lo aveva compreso benissimo: “I valori e le loro variazioni sono proporzionali alla crescita di potenza di chi pone il valore (1994: 14).
I valori espressi nel diritto non fanno eccezione: anche il diritto è sottoposto agli equilibri di forza. Ora, di fronte ad un quadro mondiale, in cui solo pochi Stati sono provvisti di armamenti atomici e solo una superpotenza è in grado di porsi al di sopra di ogni legge, il diritto non può che essere di parte. E, infatti, tutte le Convenzioni militari degli ultimi cento anni sono state redatte e ratificate sotto il pesante condizionamento degli USA, il che spiega perché non sono state vietate le bombe lanciate da aerei, le armi atomiche e nucleari (CASSESE 1994: 484), né è stata proibita la costruzione di armi ancora più sofisticate e distruttive che, proprio perché sono nuove, possono aggirare la legge. Così, ancora oggi il diritto internazionale è da ritenere ingiusto, perché “favorisce in larga misura gli Stati militarmente più potenti” (CASSESE 1994: 487). Finché nel mondo c’è squilibrio di forze e armi di sterminio e finché la guerra è un fenomeno endemico, il diritto non può che essere di parte e, dunque, non può che essere ingiusto. Infatti, dove c’è la guerra è la forza che impone e/o condiziona il diritto, mentre, dove impera il diritto la guerra non serve. In quanto implica l’uso indiscriminato della forza, la guerra dev’essere intesa “come la negazione stessa del diritto” (CASSESE 1994: 479). Sotto questo aspetto, guerra e diritto devono essere ritenuti incompatibili.
Per millenni, la guerra è stata ritenuta ineluttabile. Dopo l’affermazione del giusnaturalismo non è più così. A partire dall’età moderna, non sono rari coloro che condannano, in modo incondizionato, la guerra e riescono a concepire un mondo pacifico, come Erasmo, Bentham, Fichte, Kant e Saint-Simon. E non si tratta né di santi, né di visionari, bensì di persone concrete, di intellettuali seri e rispettati. Secondo Bobbio, dopo l’invenzione della bomba atomica, non ha più senso parlare di guerra giusta. “Non è più possibile distinguere guerre giuste da guerre ingiuste. Tutte le guerre sono ingiuste” (1997: X). Toynbee giunge ad affermare che “la guerra è una crudeltà di per sé, e unico rimedio ne è l’abolizione” (1981: 552). Nemmeno loro sono sognatori ingenui. Se si considera la tradizione millenaria favorevole alla guerra, è davvero rimarchevole il fatto che personaggi di elevata levatura culturale ne auspichino l’abolizione.
È vero: questi personaggi vengono, di solito, sbrigativamente, liquidati con l’accusa di essere dei poveri utopisti e di proporre modelli troppo fantasiosi e irrealizzabili. In realtà, dietro questo atteggiamento di supponente commiserazione si cela la mancanza assoluta di ragioni valide a favore della guerra. Oggi è facile constatare che i paesi democratici non si muovono guerra fra loro, semplicemente perché preferiscono la pace. È una questione culturale. Nulla ci vieta allora di immaginare un mondo in cui tutti i paesi siano democratici e decidano di gettare le armi e vivere in pace, in uno Stato di diritto. Ciò sta inducendo gli studiosi a ripensare la guerra e a considerarla non più come un evento ineludibile, ma come un male da scongiurare, e sono molti oggi a credere che un federalismo mondiale o la diffusione della democrazia rappresentino efficaci antidoti della guerra.
Non si sa fino a che punto questo cambiamento di rotta si sia prodotto spontaneamente o sia stato indotto dal timore di una guerra nucleare (BONANATE 2005: 118-9) e dal fenomeno del terrorismo, ma questo è secondario. Quello che è importante è che ci sia qualcuno capace di immaginare un mondo senza guerra. Ciò rende viva la speranza in un ravvedimento generale e nella concreta possibilità che, un giorno, l’uomo vorrà liberarsi delle armi di sterminio e conferire il potere sovrano ad un diritto concepito secondo criteri di giustizia.

12. Guerra, ragion di Stato e ragione individuale

La guerra può armonizzarsi tanto con la politica quanto con la ragion di Stato ed anche con l’idea di grandezza del sovrano, ma confligge con le ragioni dei sudditi, che mettono in gioco la propria vita, in cambio di poco probabili vantaggi minori. Chi si arruola nell’esercito in vista di una guerra sa di esporsi al rischio di una probabile perdita. E allora perché lo fa? Le ragioni può essere diverse: perché è costretto, per evitare la legge marziale o la vergogna che deriva dall’essere etichettato disertore, perché non vede alternative, perché è stato convinto dalla propaganda, perché spera in un miglioramento delle condizioni di vita per sé o per la sua famiglia, perché crede fermamente che si tratta di una guerra giusta, perché si aspetta una qualche ricompensa, magari nell’aldilà, o per infiniti altri motivi. “Quando si lancia una colonna all’assalto, gli uomini che marciano in testa sanno di essere mandati a morte e che la gloria ricadrà su coloro che, salendo sui loro cadaveri, entreranno nella piazzaforte nemica; ma non riflettono affatto su questa grande ingiustizia e vanno avanti” (SOREL 1997: 304).
Però l’ingiustizia c’è ed è evidente: coloro che cadono perdono se stessi e devono rinunciare al proprio progetto di vita, cioè a tutto, mentre, per i sopravvissuti, fatte le debite eccezioni, le prospettive non cambiano in modo sostanziale. Infatti, generalmente, la maggior parte degli uomini in armi hanno redditi appena sufficienti per condurre un’esistenza dignitosa. Ebbene, anche dopo una guerra vittoriosa, la maggior parte della popolazione di un paese continua a disporre di mezzi sufficienti per condurre una vita appena decorosa. I reali beneficiari della guerra sono, dunque, solo un’esigua minoranza della popolazione di un paese. Per la maggioranza, l’esito è in perdita o in parità. Ora, io credo che la guerra sarebbe da considerare ingiusta, anche se dovesse impedire il regolare svolgimento del progetto di vita di una sola persona, ed sarebbe da ritenere doppiamente ingiusta se il sacrificio di quella persona fosse strumentale a vantaggio di un’altra. L’ingiustizia della guerra deriva dal fatto che essa arreca danno ad alcuni a beneficio di altri.

11 Cristianesimo e guerra

Nonostante questi distinguo, la pratica della guerra non ha subito flessioni nel corso del tempo, né, fino ad oggi, da parte dei credenti cristiani, è stata manifestata la volontà di ritornare all’autentico spirito di Cristo, che è contrario a qualsiasi forma di violenza. A tutt’oggi, il pacifismo cristiano rimane una sorta di modello-fantasma, qualcosa al quale tutti dicono di ispirarsi, ma a cui nessuno mostra di credere. È stato proprio questo atteggiamento equivoco che ha scatenato la secca reazione di Nietzsche. Secondo il filosofo, il motore del mondo è la volontà di potenza degli uomini, che li spinge alla lotta competitiva per l’autoconservazione e il potere. Alla fine, i migliori dominano il mondo, mentre i perdenti sviluppano la «morale», che, di fatto, declassa il superuomo ed esalta la mediocrità. Questa morale è sostenuta, continua Nietzsche, dai cristiani, che sono “la specie degli uomini odierni più ingenua e retrograda” (1994: 83). Nietzsche ha equivocato: non si è accorto che il pacifismo contenuto nella morale cristiana è solo di facciata. Se avesse guardato con più attenzione ai fatti, avrebbe notato che i cristiani si sono dedicati alla guerra non meno di altri gruppi umani non credenti.

10. Le Convenzioni del XX secolo

Certo, perché una guerra possa essere ritenuta davvero giusta, secondo i giusnaturalisti, devono esserci dei limiti all’uso della forza. Così Grozio esige che il nemico non sia deprivato della sua qualità di uomo e impone il rispetto dei civili, dei feriti, dei malati, dei prigionieri, ma anche degli oggetti privi di interesse militare, come i luoghi di culto, le tombe, le opere d’arte. Su tali basi vengono redatte le convenzioni dell’Aia (1899 e 1907), che impongono una regolamentazione ai conflitti armati, il protocollo di Ginevra (1925), che vieta l’impiego di armi chimiche e batteriologiche, e la Convenzione che proibisce l’uso di armi a frammentazione, di mine e di ordigni incendiari (1980). Queste convenzioni, tuttavia, spesso vengono disattese. Lo stesso diritto internazionale tradizionale appare inadeguato sotto il profilo della giustizia, poiché tende a “favorire le potenze forti o di media grandezza” (CASSESE 1994: 482), a scapito di quelle più deboli.

9. Tentativi di giustificare la guerra

L’opinione cara ai greci, secondo cui la guerra va accettata per se stessa, perché è bene che il più forte domini sul più debole, è apparsa col tempo poco soddisfacente e, così, molti studiosi hanno cercato il modo di giustificarla, accostandola ora alla politica, ora al diritto. Ma il tentativo più radicale di condannare la guerra è rappresentato dal pensiero di Cristo. Il suo invito a riporre la spada e a porgere l’altra guancia, la sua opposizione radicale all’uso della forza costituisce una profonda rottura col passato. Benché poi il messaggio di Cristo abbia trovato ampia diffusione nel mondo, il suo pacifismo incondizionato ha avuto seguito fra i cristiani solo per poco tempo, fino a quando cioè essi hanno costituito la parte debole della società. Fino ad allora i cristiani si sono mossi come pecore in mezzo ai lupi e si sono immolati, senza opporre resistenza, per non rinnegare la propria fede. Ma dopo essere stato proclamato religione di Stato, il cristianesimo ha mischiato i suoi interessi con quelli della politica e ha fatto propria la logica della guerra, questa volta senza preoccuparsi di rinnegare il proprio Signore.
Sant’Agostino (354-430) inaugura la tradizione cristiana di giustificazione della guerra. Per il vescovo d’Ippona, gli uomini si combattono per raggiungere uno stato di pace: lo scopo della guerra è la pace (Città di Dio XIX 12,1). La guerra viene giustificata da questo scopo, che è nobile. Da lì in avanti, per i cristiani, la guerra è ritenuta giusta se è sostenuta da una causa giusta e se è condotta senza eccessi. Per Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Francisco de Vitoria (1483-1546), una guerra è giusta quando è dichiarata dall’autorità costituita, deriva da una giusta causa e mira a riparare i torti e le ingiustizie e a promuovere il bene. In questo modo si assimila la guerra ad una procedura giudiziaria. “Ma – osserva Bobbio – il risultato della guerra è proprio l’opposto: è quello di dar ragione a chi vince” (1997: 59).
San Bernardo di Chiaravalle si rivolge al nascente ordine dei Templari con queste parole: “Il cavaliere di Cristo uccide con tranquilla coscienza e muore con anche maggior sicurezza. Morendo favorisce se stesso, uccidendo favorisce Cristo” (DE MATTEI 2002: 90). Le crociate sono promosse anche da papi, che saranno elevati agli onori dell’altare, come Urbano II, Pio V e Innocenzo XI. Alla crociata fanno appello anche santa Caterina e santa Brigida nel XIV secolo. Rimane il vecchio interrogativo: come conciliare la legittimità della guerra con il comandamento di non uccidere? La dottrina della chiesa risponde che “il precetto non si riferisce all’uccisione in se stessa, ma all’assassinio dell’innocente” (DE MATTEI 2002: 22). Così, uccidere un nemico nel corso di una guerra giusta oppure eseguire una pena capitale ordinata dallo Stato è, secondo la chiesa, cosa lecita.
Anche l’Islam comanda di “combattere coloro che non credono in Dio” (Corano 9,29) e, in questo modo, offre una legittimazione alla guerra santa (jihad).
In ogni caso, la guerra che viene giustificata “è, si badi bene, una guerra offensiva. La guerra difensiva rientra nel diritto naturale dell’uomo alla legittima difesa e non ha bisogno per i nostri autori di essere giuridicamente e teologicamente giustificata (DE MATTEI 2002: 19). Per quel che concerne il tipo di arma, generalmente la questione viene ritenuta di secondaria importanza: di fatto, anche le armi di sterminio possono essere impiegate nel corso di una guerra giusta, ma solo “come estrema legittima difesa” (DE MATTEI 2002: 35).
A maggior ragione, la guerra è stata giustificata dai pensatori laici, moderni e contemporanei, che tendono a considerarla come un tratto strutturale della storia e della natura umana. Machiavelli vede in essa uno strumento della politica, Grozio uno strumento del diritto, Hobbes un fatto naturale, Hegel la giudica un tratto distintivo e necessario dello Stato sovrano, Nietzsche ne esalta la bellezza. Tutti convengono sulla sua ineluttabilità. Secondo questi studiosi, la guerra sarebbe un tratto strutturale della natura umana, un male inevitabile col quale occorre convivere. Anche le società tribali, infatti, hanno avvertito il bisogno della guerra, che sarebbe loro servita sia per preservare la propria identità di gruppo sia per rinforzare i vincoli di solidarietà fra i membri della tribù e mantenere la coesione sociale. “Insomma, la guerra è lo strumento che permette di avere la pace interna, e ciò significa che l’uomo non può sfuggire alla violenza: è condannato a scegliere fra la guerra intratribale e la guerra intertribale” (PELLICANI 1998: 786).
Ma qualcuno, andando oltre ogni possibile immaginazione, ha ritenuto di dover osannare la guerra, di tesserne un elogio sperticato. Mi riferisco al giornalista Massimo Fini, secondo il quale, la guerra svolge importanti e positive funzioni. “L’uomo – scrive Fini – teme la guerra, ma ne è anche attratto. Ne ha orrore, ma ne subisce il fascino (1999: 15). La guerra serve per risolvere anche i conflitti più intricati (p. 21), “favorisce il ricambio delle classi dirigenti” (p. 22), esercita un controllo della crescita demografica (p. 25), stimola il progresso tecnico (p. 28), “soddisfa alcune pulsioni esistenziali presenti nell’uomo” (p. 37), rafforza la solidarietà (p. 76), induce “ad amare e apprezzare la vita” (p. 83). Da quando l’uomo si sente minacciato dalle armi atomiche non può dare libero sfogo alla sua naturale aggressività e si vede costretto ad una pace coatta, con rischi, che Fini definisce preoccupanti. La pace coatta “si è ritorta contro di noi sotto forma di perdita di solidarietà, individuale e collettiva, di solitudine, di criminalità diffusa, di senso di impotenza, di noia, di frustrazione, di nevrosi, di malattia, di impulsi autodistruttivi, di suicidio, di droga” (FINI 1999: 130). Non so se Fini abbia mai partecipato ad una guerra o se ne abbia visto gli orrori. Se così fosse, mi inchino davanti alla sua esperienza. Ma se così non è, vorrei che riscrivesse il suo libro dopo una prova sul campo.

8. Ciclicità della storia

L’instabilità dei governi è nota agli antichi e viene più volte descritta da diversi autori, come Platone, Aristotele e Polibio, i quali notano che le società umane evolvono secondo un invariante percorso ciclico. All’inizio è la legge del più forte che domina e genera una società turbolenta e instabile. Poi comincia a prevalere il desiderio di stabilità e di pace e si finisce con l’eleggere un re e affidarsi alla sua legge. Dapprima il re si comporta in modo giusto, ma poi, dimentico di essere stato chiamato dal popolo a svolgere un ruolo di servizio, si insuperbisce e pretende di governare come se fosse un dio e come se il regno fosse una sua proprietà privata e i cittadini delle pecore da tosare. Ad un certo punto i «migliori» si sollevano e, dopo averlo deposto, instaurano un governo aristocratico. Anch’essi si comportano inizialmente in modo virtuoso, ma col tempo pensano solo a se stessi e trascurano la popolazione, la quale insorge e instaura la democrazia. Dapprima il popolo si governa con saggezza, ma poi i vari gruppi cominciano a litigare e presto si giunge ad uno stato di guerra civile, dal quale si viene fuori solo eleggendo un re. Ed ecco che il ciclo ricomincia (Platone, Rep. 545-569; Aristotele, Etica VIII, 10,1; Polibio, Storie VI, 9).

7. L’imprevedibile intervento della fortuna

La legge del più forte varrà per tutto (per i valori etici, la politica, il governo, i costumi, la religione e, perfino, la lingua). Per tutto si genera una sorta di scontro darwiniano e tutto dipende dall’esito della lotta fra le forze in campo (MATTELART 1998: 198). Ma, attenzione! La legge della forza è insicura e mutevole, anche se spesso gli uomini sembrano dimenticarsene. Lo stesso Tucidide, che pure, come abbiamo visto, approvava il principio della forza, si rendeva conto dei suoi limiti, come traspare nel racconto della famosa vicenda che oppose gli Ateniesi agli abitanti dell’isola di Melo (V, 85-112). Nella sostanza, Tucidide nota che i rapporti di forza possono cambiare in modo imprevedibile a causa della fortuna e che un impero basato solo sulla forza non può durare. Lo dirà anche Seneca: “A chiunque può accadere quel che accade a tutti” (Consolazione a Marcia 9,5). Oggi gli Ateniesi impongono la loro volontà sui Meli perché sono i più forti; domani la stessa sorte potrebbe toccare a loro ad opera dei Meli.
La Roma imperiale non sa cogliere questa verità e, dimentica di essere stata civilizzata dai vinti greci, “si considera il solo Stato che ci sia al mondo e s’identifica con il mondo civilizzato, umanizzato” (VEYNE 1993: 405), mentre crede che tutti gli altri popoli siano barbari e diventino civili nella misura in cui si sottomettono a Roma e abbracciano il suo modello culturale. I contemporanei di Augusto scoprono che il mondo ha raggiunto un livello di prosperità fino ad allora ignoto e il loro pensiero si articola “intorno all’idea di un ieri barbaro e di un oggi civilizzato” (VEYNE 1993: 410). Ma anche questa civiltà dovrà imboccare la via del tramonto e sarà spazzato via dai rozzi barbari. E lo stesso accadrà alla blasonata Cina per opera dei mongoli, e a tutte le altre potenze ad opera di altre potenze. Nessuna potenza militare e nessuna cultura, infatti, hanno resistito alla prova del tempo e tutte hanno dovuto cedere il passo a nuove potenze militari e a nuove culture.
Eppure, l’esperienza ci insegna che non c’è vicenda umana che non sia sottoposta all’azione beffarda della fortuna. Noi cerchiamo di fare le scelte atte a far sì che le cose vadano in un certo modo e poi, indipendentemente dalla nostra volontà, quelle cose cominciano a prendere una piega del tutto imprevista, che ci costringe a cambiare i nostri piani, a fare altre scelte e a porci altri obiettivi. Ma ecco che emerge un altro imprevisto, e tutto ricomincia. Se ciascuno di noi guarda indietro nel tempo, si può accorgere di quanto la sua vita avrebbe potuto essere diversa da quella che è stata. Un indirizzo scolastico piuttosto che un altro, un tipo di lavoro, un matrimonio, un investimento, un incidente, una malattia, un incontro, una legge, e tanto altro ancora, sono in grado di cambiare, in ogni momento, il corso delle nostre esistenze, e tutto ciò anche senza un rilevante contributo da parte nostra.
Gli antichi conoscevano bene questa realtà, tanto da fare della fortuna un ente personale, provvisto di volontà, una vera e propria divinità, chiamata, appunto, Fortuna (o Caso o Destino), alla quale attribuivano il potere di modificare il corso prevedibile degli eventi umani. Nel lungo corso dei tempi l’uomo ha creduto che la Fortuna avesse una sua logica e che fosse governata da leggi, e ha provato a scoprire queste leggi, in modo da poterle controllare, ma finora non c’è riuscito e ha dovuto rassegnarsi a concludere che la Fortuna è cieca, ossia del tutto imprevedibile. L’uomo però non accetta le strade senza uscita e non può fare a meno di sperare che, in qualche modo, lui possa controllare il corso della storia. Ed ecco che si sono affermati gli sciamani, i profeti e gli oracoli, ossia coloro che parlano con la bocca di un dio, o gli aruspici che, con le loro arti, si ritiene sappiano cogliere da che parte sta la Fortuna, o i maghi, che si suppone siano capaci di rimuovere una maledizione e leggere il futuro. Ed ecco che si diffonde anche l’uso di oggetti e riti scaramantici, gesti superstiziosi, atti di culto, formule, sacrifici e preghiere, il cui scopo è quello di propiziarsi la buona sorte e allontanare il male.
Ma tutto è vano e i fatti continuano a dimostrare che il corso degli eventi delle nostre vite e della storia continuerà ad essere, in buona parte, imprevedibile e al di fuori del nostro controllo. Ciò vuol dire che il racconto dei fatti che noi leggiamo nei libri di storia avrebbero potuto svolgersi in modo diverso, con conseguenze difficili da immaginare. Queste considerazioni valgono anche nel caso della guerra. Ed è difficile, infatti, che un condottiero possa avere la certezza assoluta di affermarsi sul nemico, tante e tali sono le variabili in gioco. Di casi di mancata vittoria del più forte o di affermazione del più debole è costellata la storia, a dimostrazione che non è mai prevedibile con matematica certezza l’esito di una guerra. Riportiamo degli esempi.
Nel 701, dopo che il re assiro Sennacherib aveva avuto la meglio su una colazione di egiziani, fenici, filistei ed ebrei, aveva via libera per entrare a Gerusalemme e abbattere il regno di Giuda, e invece si limitò a lasciare sul trono Ezechia, come suo fedele vassallo. Se, in quella occasione, il regno di Giuda fosse caduto, “l’ebraismo sarebbe scomparso dalla faccia della terra e le due religioni da esse derivate, cristianesimo e Islam, non sarebbero forse venute alla luce” (COWLEY 2003: 15). E invece, fu proprio quel fatto imprevisto che, prestandosi ad una interpretazione miracolistica, finì per rafforzare la fede degli ebrei nel loro dio e costituì la base del successivo sviluppo della loro religione.
Un altro caso ci viene offerto dalla battaglia di Thymbra (546 a.C.), che vide opposto Creso, ricco e potente re della Lidia, contro il più modesto re persiano, Ciro. Nonostante che le forze in campo di Creso fossero più numerose, la vittoria arrise a Ciro e fu in parte certamente legata alla sua abilità di stratega, oltre che a fattori tecnici (per la prima volta in quella battaglia Ciro ricorreva all’impiego di cammelli, che facevano spaventare i cavalli dei nemici) e alla fortuna (sarebbe bastata una malattia o una ferita per togliere di mezzo Ciro e dare la vittoria al nemico). Quella vittoria non solo offrì a Ciro la possibilità di controllare le vaste ricchezze della Lidia, ma anche quella di creare le condizioni per la fondazione di un grande impero, quello persiano, e di una grande dinastia, quella degli Achemenidi.
Alla vigilia della seconda guerra greco-persiana, che vedeva contrapposti alcune piccole e litigiose poleis elleniche al Grande Re persiano, che marciava alla testa di un possente esercito di terra e di mare, superiore numericamente almeno di tre volte, nessuno avrebbe potuto pronosticare che la guerra si sarebbe conclusa col trionfo di Atene. Se il modesto esercito di Milziade non avesse fermato l’avanzata delle preponderanti forze di un impero persiano in fase di espansione (Maratona, 490 a.C.) e la flotta greca non avesse sbaragliato quella nemica (Salamina 480), i persiani avrebbero potuto dilagare in Europa, con conseguenze imprevedibili, e non solo non si sarebbe affermata la democrazia ateniese, ma neppure avrebbe potuto svilupparsi la straordinaria cultura greca e, di conseguenza, non sarebbe nemmeno nata la civiltà occidentale, che da quella deriva.
Quando il poco più che ventenne Alessandro, alla testa di un modesto esercito, partì alla conquista dell’immenso impero persiano, la sua doveva essere considerata l’azione di un temerario votata ad un sicuro insuccesso, una specie di folle e inspiegabile suicidio collettivo. E, in effetti, in più occasioni, quel giovane temerario rischiò di morire per mano dei nemici, e, nella battaglia conclusiva, che lo vedeva opposto al molto più numeroso esercito di Dario III, potè vincere solo grazie alla pochezza e alla codardia del re persiano. Senza una grande dose di fortuna, Alessandro non avrebbe potuto portare a termine quell’impresa con successo, e, senza di essa, la cultura greca non si sarebbe diffusa verso Oriente.
Si pensi ai sorprendenti successi di Annibale contro i romani e all’inspiegabile esitazione del generale cartaginese, che gli precluse la vittoria finale. Se Annibale avesse vinto, Cartagine sarebbe divenuta la superpotenza in Occidente e Roma sarebbe scomparsa dai libri di storia.
Senza i favori della fortuna non sarebbe stato possibile a Giulio Cesare conquistare la Gallia e, che presentava insidie di ogni tipo, sconfiggere Pompeo, che disponeva di forze ben maggiori. Senza le vittorie di Cesare, forse Roma sarebbe rimasta una repubblica.
Imprevedibile e gravida di conseguenze fu anche la disfatta subita dal generale romano Quintilio Varo ad opera dei germani nella selva di Teutoburgo (9 d.C.), che arrestò per sempre le mire espansionistiche di Roma a nordest. La civilizzazione della Germania avrebbe potuto cambiare il corso della storia.
Costantino fu una di quelle rare figure in grado di imprimere un nuovo corso alla storia. Dotato di uno smisurato coraggio, di un’illimitata fiducia in se stesso e di un’ambizione senza fine, unite ad una raffinata intelligenza strategica sul piano militare e ad uno straordinario fiuto politico, dovette comunque rischiare molto e, senza fortuna, non sarebbe riuscito a sbarazzarsi dei suoi nemici e a diventare supremo signore dell’impero, né sarebbe stato facile per la religione cristiana prevalere sul paganesimo.
Sorprendenti furono l’esito e le conseguenze di un modesto scontro avvenuto a Badr, nel 624, fra trecento medinesi guidati da Maometto e novecento meccani. Grazie alla vittoria di Maometto, che avvenne in un momento delicato della sua vita, molte tribù locali si unirono al profeta, dando inizio di fatto alla diffusione della religione islamica nel mondo.
Nel 1242 fu per puro caso che l’Europa scampò all’assalto dei mongoli i quali, quando si trovavano già alle porte di Vienna, furono fortunatamente richiamati nella loro patria a causa della morte del Gran Khan. Se così non fosse stato, forse i mongoli avrebbero potuto unificare in un’unica cultura l’intera Eurasia.
Lo stesso accadde nel 1529, quando le armate ottomane al seguito di Solimano il Magnifico furono attardate e indebolite da una pioggia insolitamente intensa e persistente, che ne impedì l’avanzata in Europa (COWLEY 2003: 113-26).
Quando scoppiò la rivolta delle Colonie americane nei confronti della madre patria, i ribelli avevano ben poche probabilità di vincere. La guerra che ne nacque (1775-1783) fu, però, un susseguirsi di fatti imprevisti, che finirono per condizionare gli eventi e volgersi a favore dei rivoltosi. “Vi sono stati fin troppi momenti in cui la causa dei patrioti ha vacillato sull’orlo del baratro, ed è stata salvata da incidenti o coincidenze quanto mai improbabili o dalle scelte fatte in fretta da uomini nello slancio del combattimento” (COWLEY 2003: 163). Se Washington avesse perso non sarebbero nati gli Stati Uniti d’America, che da oltre un secolo giocano il ruolo di prima potenza mondiale e appaiono in grado di condizionare le vicende politiche ed economiche dell’intero pianeta.
Si potrebbe continuare a lungo in questa rassegna, per esempio, citando alcuni successi militari di Napoleone che furono conseguiti contro ogni ragionevole pronostico, ma ciò non aggiungerebbe nulla alla nostra conclusione, che è la seguente: se è vero che sono i rapporti di forza a stabilire chi deve comandare, è anche vero che non sempre vince chi ha i favori del pronostico. Gli eventi della storia appaiono dominati dall’incertezza, un’incertezza che non riguarda solo l’esito di una battaglia o di una guerra, ma anche la stabilità dei risultati conseguiti. Ebbene, nonostante questi evidenti limiti, la forza è sempre stata, e continua ad essere, in primo piano. È vero che non sempre vince il più forte, ma è anche vero che chi vince è, per definizione, il più forte e può imporre la sua legge.

6. La guerra vera e propria

Non sempre si combatte per acquisire beni: talvolta si usa la forza per acquisire uno spazio vuoto, dove insediare la propria gente, i propri animali e le proprie cose. In questo caso, la guerra è di tipo politico e si svolge non più fra singoli signori, bensì fra Stati, e con l’obiettivo di conquistare un territorio. La guerra diventa allora il modo naturale e ineliminabile attraverso il quale gli Stati regolano i propri rapporti (Platone Leggi I, 626a; 625e). Solo uno Stato bene amministrato è anche “organizzato in modo da vincere in guerra tutti gli altri” (Platone Leggi I, 626c). È, perciò, dovere primario di ogni Stato organizzarsi in modo tale da poter imporre agli altri Stati la propria legge, anziché subirla. Ora, quando la guerra pone di fronte due popolazioni diverse per cultura e per lingua, allora essa svolge, secondo i greci, un effetto benefico anche per i vinti i quali, grazie proprio alla sconfitta, ricevono l’effetto civilizzatore della potenza superiore. Il concetto di «guerra giusta» è semplicemente ignorato dai greci, per i quali la guerra è un semplice rapporto di forza fra due popoli ed è naturale che il più forte si imponga sul più debole, mentre sarebbe innaturale il contrario. È inutile, pertanto, chiedersi se c’è giustizia in un rapporto «naturale».
Questo tipo di guerra si afferma per la prima volta nel vicino Oriente, intorno a 4.5 Kyr fa, quando numerose popolazioni nomadi si contendevano degli spazi territoriali all’interno di una regione affollata. Da questo momento, la guerra diventerà compagna assidua dell’uomo, il quale, anziché provare disgusto nei suoi confronti, troverà il modo per giustificarla e perfino esaltarla.
Nell’Antico Testamento, queste guerre territoriali acquisiscono un significato religioso: se Dio comanda di attaccare dei nemici, la guerra non può essere che giusta. I nemici di Dio sono, per definizione, esseri impuri e sacrileghi: essi devono essere eliminati e rimpiazzati da nuova vita. Talvolta, anche gli animali dei nemici sono considerati impuri e, per la stessa ragione, anch’essi vengono eliminati. Il risultato finale è il genocidio, l’eliminazione di una popolazione allo scopo di prenderne il posto. Si tratta di un rinnovamento totale. Nella guerra di religione, il fattore ideologico prevale su quello economico. Ma come conciliare la legittimità della guerra con il comandamento di non uccidere? Gli ebrei non si pongono questo interrogativo: essi non osano sindacare la volontà di Dio, anche quando essa sembra orrenda e contraddittoria. Chi combatte guerre di religione non si pone molte domande e il dubbio è estraneo al suo pensiero.

5. La razzia

Nell’Iliade si combatte per l’onore e per la gloria, “ma l’essenza più concreta della vittoria, da cui deriva maggior prestigio al combattente, è il bottino di armi, di cavalli, di carri da guerra. Si combatte per uccidere il nemico, al quale la vita viene di rado risparmiata se si consegna prigioniero, e se questo accade è solo per ricavarne un riscatto conveniente in oro, argento, bronzo, cavalli, schiavi e schiave” (LONGO 2000: 201). Il principale scopo della guerra, in Omero, non è la conquista territoriale, bensì il bottino, e la ragione è semplice. I contendenti, infatti, non sono degli Stati grandi e impersonali, ma piuttosto dei singoli individui, che ricorrono alla guerra come mezzo per garantirsi un’esistenza agiata. Non è la Grecia che combatte contro Troia, ma sono Agamennone, Achille e tanti altri condottieri che guidano i loro uomini ad appropriarsi del tesori di Priamo. Agamennone e Achille comandano un contingente troppo esiguo per poter aspirare ad una conquista territoriale e devono limitare le loro mire al bottino. In fondo, per loro, la guerra è una sorta di lavoro, un modo come un altro per guadagnarsi da vivere, Aristotele vede nella guerra un mezzo legittimo per acquisire i beni dei barbari, che sono “uomini nati per ubbidire” (Politica 1256b23).
Questa stessa concezione la ritroviamo in Tucidide, il quale osserva che le azioni militari che si svolgono nel corso della guerra del Peloponneso vengono, almeno in parte, autofinanziate sottraendo risorse al nemico, perché Atene o Sparta non possono permettersi di mantenere a proprie spese tutti i soldati che combattono dalla propria parte, soprattutto se si tratta di mercenari. La guerra, in questo caso, non prescinde dalla razzia, ma si serve, deliberatamente, di essa per gli scopi contingenti, che sono quelli di sostentare le truppe. Un esempio: un contingente di 1300 mercenari traci, che sono giunti ad Atene in ritardo per poter essere imbarcati alla volta della Sicilia, vengono affidati allo stratego Diitrefe, affinché provveda al loro rimpatrio e, per evitare di dover corrispondere il salario pattuito di una dracma al giorno, si stabilisce di offrire a quegli uomini delle occasioni di razzia (Storie VII, 28-30). È la dimostrazione di come una banda di uomini armati possa procurarsi dei beni, sottraendoli ad altri con la forza, anche a costo di ucciderli, una sorta di guerra-lavoro, con la complicità dello Stato: tutto alla luce del sole. Un altro esempio: il pio Nicia conquista la città sicana di Iccara e poi vende gli schiavi così catturati per autofinanziare la guerra in corso (Storie VI 62,3-4). In linea con questa visione economica della guerra, i greci si limitano ad uccidere solo gli uomini adulti (dei vecchi in genere non si parla, ma è probabile che anch’essi vengano soppressi), mentre donne e bambini sono fatti schiavi. Di norma, anche gli animali vengono risparmiati e considerati parte del bottino (LONGO 2000: 184-5).
Questa «guerra-lavoro» non solo è considerata legittima, ma gode anche di prestigio: essa è una nobile attività che, oltre a conferire benessere e ricchezza, rende illustre colui che la pratica con successo. Per i greci, non c’è nulla di più naturale della guerra. Secondo Eraclito, “Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte è re” (B 53). Anche i sofisti credono nella legge del più forte e un loro esponente così scrive: “Naturale è che non il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto; e il più forte guidi, il più debole segua” (Gorgia, Elena 6) (ROSEN 1999: 63). Ancora per Platone e Aristotele, la guerra è, essenzialmente, “l’arte di acquisire con la forza mezzi supplementari per vivere, sotto forma di sostentamento, di denaro o di agenti produttori” (GARLAN 1991: 59). È ritenuto del tutto naturale, dunque, che gli Ateniesi pretendano dalle città sottomesse il seguente giuramento: “pagherò agli ateniesi il tributo che li avrò persuasi a fissare e sarò il migliore alleato possibile e quello più fedele; andrò in soccorso del popolo degli ateniesi e lo difenderò se qualcuno facesse un torto al popolo degli ateniesi, e ubbidirò al popolo degli ateniesi” (BRULÉ 1997: 115).

4. Le forme della guerra

La legge del più forte domina incontrastata sul mondo. La stessa natura si è affidata a questa legge per gestire i rapporti fra individui e gruppi in tutto il mondo vivente, quello vegetale compreso. Nelle specie sociali, la legge del più forte opera sui membri di uno stesso gruppo, generando un’organizzazione gerarchica e facendo sì che il maschio alfa domini sugli altri ed abbia la precedenza nell’accesso a tutto ciò che è desiderabile (LINDAUER 1993: 119ss). L’uomo non fa eccezione e i rapporti di forza dominano anche la sua storia. I greci furono perfettamente consapevoli del ruolo centrale della forza nei rapporti fra le persone e fra gli Stati. Scontri fra uomini armati sono riprodotti in disegni paleolitici di 20.000 anni fa (SILVESTRI 1994: 452), ma si tratta di semplici incursioni o razzie, condotte da pochi uomini armati al solo scopo di procurarsi un bottino. La guerra vera e propria presuppone l’esistenza di città e di Stati. Essa prevede la conquista territoriale e/o la sottomissione del nemico. Clan e tribù, invece, prediligono la razzia, al solo scopo di procurarsi risorse.

3. Le ragioni e le funzioni della guerra

Perché si ricorre all’uso della forza? Il fatto è che ciascuno di noi tende a legarsi alla propria cultura, alle proprie opinioni e ai propri interessi, e non è incline a mettersi in discussione. Ora, poiché non è dimostrabile, in modo oggettivo e incontrovertibile, la superiorità di una cultura rispetto ad un’altra, di un’opinione rispetto ad un’altra o di un interesse rispetto ad un altro, l’uomo si trova a dover scegliere fra due principali opzioni. La prima, l’opzione relativistica, si muove nello spirito del «vivi e lascia vivere», «non c’è una sola verità», «tutte le culture, tutte le opinioni, tutti gli interessi meritano rispetto, purché non sono di pregiudizio per altri». La seconda opzione si muove invece nella convinzione della superiorità assoluta di un Sé, della sua cultura, delle sue idee e dei suoi interessi. Ora, chi scelga questa seconda opzione, di norma, mira ad imporre la propria volontà a tutti gli altri e, se non ci riesce con mezzi pacifici, non esita a ricorrere alla forza. Alla fine, la forza diventa una sorta di giudice supremo con diritto di ultima parola. Tale era il senso del duello (quando questo costume era in uso: oggi è stato soppiantato dalla competizione e dalle vie legali) nei rapporti personali, e tale è sempre stata la guerra nei rapporti fra Stati. Nella guerra non contano le ragioni o le logiche di giustizia. Nella guerra conta solo l’esito finale. “Una guerra, per giustificata che sia, è sempre un errore se non è una guerra vinta” (ALTOMONTE 2003: 141). Alla fine, la ragione del vincitore è sempre la migliore. “La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà” (CLAUSEWITZ I, 2).
È pressoché impossibile muovere guerra ad uno Stato che si ritenga pari, perché ciò equivarrebbe ad approvare che altri possano legittimamente muovere guerra contro di sé. Di norma, la guerra è generata e alimentata o da necessità vitali o da opportune ideologie di tipo nazionalistico o religioso, che portano a ritenere se stessi migliori di altri e gli stranieri tanto più barbari quanto più la loro cultura sia lontana dalla propria. Questo, chiamiamolo così, nazionalismo culturale o fondamentalismo religioso era stato notato già da Erodoto presso i persiani (I, 134), ma era presente anche presso i greci e, in generale, presso ogni popolazione che abbia fatto ricorso alle armi a scopo espansionistico. La regola è che per fare la guerra ci vuole un nemico. Ebbene, “Il Nemico è una creazione specifica dei movimenti nazionalisti e religiosi” (WALZER 2004: 130).
Una volta creato il nemico, il secondo passo è quello di imporgli la propria cultura e i propri interessi, se possibile con mezzi politici, altrimenti con la forza. La guerra è un atto estremo della politica, ma pur sempre un atto politico. Infatti, come osserva Clausewitz, “la condotta della guerra, nelle sue linee fondamentali, altro non è che la politica stessa, la quale depone la penna e impugna la spada” (VIII, 6b), ovvero “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi” (I, 24). [Oggi si dice la stessa cosa a proposito di quella particolare forma di guerra che è il terrorismo: anche il terrorismo “è una strategia politica scelta tra una gamma di diverse opzioni” (WALZER 2004: 129).]
Anche se i rapporti di forza cambiano, un vincitore c’è sempre ed ha sempre ragione. “La storia è scritta dai vincitori, e in modo tale da giustificare la loro interpretazione dei fatti” (SOLOMON 1999: 26). Gli esempi sono innumerevoli e di ogni tempo. Gli assiri avevano elaborato una teoria a giustificazione della loro superiorità rispetto a tutte le altre popolazioni, gli ebrei ritenevano di essere un popolo eletto da Dio per trionfare sul mondo, gli ateniesi giustificavano il loro imperialismo appellandosi alla legge naturale, secondo la quale il più forte e migliore deve dominare sui più deboli, i romani sostenevano che le loro guerre di conquista fossero meritori atti di civilizzazione, Carlomagno e i conquistadores spagnoli erano convinti di diffondere il messaggio cristiano, ossia l’unica vera fede, a popolazioni rozze e incivili, Hitler credeva che la razza ariana fosse superiore alle altre e che fosse giusto eliminare le razze inferiori.
Per decenni, dopo la caduta del fascismo, i vincitori hanno inneggiato alla Resistenza. Oggi i rapporti di forza sono cambiati, al punto che qualcuno può “far vedere l’altra faccia della medaglia” e cioè che anche la Resistenza ha le sue colpe, anch’essa ha i suoi scheletri nell’armadio, anch’essa ha delle macchie sulla coscienza. La differenza col Fascismo è che la Resistenza ha vinto, si è rivelata più forte e, attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, è la sola che può parlare e interpretare i fatti pubblicamente. Mussolini è stato trucidato e non può più difendersi. I fascisti hanno pagato la sconfitta non solo in termini di vite umane, di perdita dei beni e del potere, ma anche con la condanna al silenzio: “la parte che soccombe non paga soltanto le violenze che ha compiuto durante la guerra, ma anche il semplice fatto di non avere vinto” (PANSA 2003: 19).

2. Lotta, potere e guerra

“L’alfa e l’omega della teoria politica è il problema del potere: come lo si acquista, come lo si conserva e come lo si perde, come lo si esercita, come lo si difende e come ci si difende da esso” (BOBBIO 1992: 159). Non si può comprendere la politica o il diritto, e nemmeno lo Stato, se non si comprendono la logica e le funzioni del potere.
Weber parla di «lotta» quando qualcuno tende a imporre il proprio volere a qualcun altro che oppone resistenza (1999 I: 35) e vede nel «potere» la capacità di far valere la propria volontà in uno stato di lotta (1999 I: 51-2). È stato anche notato che non c’è potere senza libertà: i due princìpi sono affini. “Potere è semplicemente il nome con cui si chiama nella vita politica e sociale la libertà umana, la facoltà di scegliere cosa fare” (DUNN 1983: 178). Ora, la libertà può originare dalla forza oppure dal diritto. E qui il cerchio si chiude intorno a questi pochi concetti (forza, diritto, potere e libertà) che si autoalimentano.
In genere, chi è in grado di esercitare un potere, o con la forza delle armi o con quella di un’ideologia strumentale, “cerca di suscitare e di coltivare la fede nella propria legittimità” (WEBER 1999 I: 208). Il diritto è una forma di cultura e, come tale, si limita ad operare a livello ideologico, in ciò servendosi del fondamentale apporto di funzionari fedeli, scelti per le loro competenze artistiche, letterarie e religiose, oltre che le loro qualità carismatiche. Weber distingue tre tipi puri di potere legittimo (WEBER 1999 I: 210) e parla di potere razionale, quando il popolo ritiene che chi detiene il potere ne abbia tutto il diritto (ne è un esempio il potere amministrativo-burocratico), di potere tradizionale, quando il popolo vede nel potere qualcosa di sacro, sancito da una tradizione che si perde lontano nel tempo (ne sono esempi la gerontocrazia e il patriarcalismo), di potere carismatico, quando il potere poggia sulla dedizione straordinaria del popolo nei confronti di una persona, ritenuta dotata di qualità eccezionali. “Il gruppo di potere di questa specie costituisce una comunità di carattere emozionale” (WEBER 1999 I: 239). Il diritto serve a istituzionalizzare il potere di una classe dominante, di qualunque tipo esso sia, a legittimarlo e renderlo stabile anche senza dover ricorrere di volta in volta alla forza.
La legittimazione si accompagna alla volontà dei sottomessi di ubbidire alle autorità costituite dà origine alle istituzioni pubbliche, ovvero ad organismi che sono in gradi di funzionare anche senza dover ricorrere necessariamente alla forza. L’esperienza, tuttavia, insegna che è bensì vero che uno Stato legittimato si libera dallo stretto legame col principio di lotta, ma non se ne libera mai totalmente, anzi continua ad avere bisogno di una forza considerevole.
Il principio di forza vale anche nei rapporti fra Stati. Si parla di guerra quando due o più Stati ricorrono alle armi per dirimere una certa questione che li vede in disaccordo. A differenza dell’incursione armata, che può essere estemporanea e di rapida esecuzione, la guerra è premeditata e presuppone un accurato piano d’azione, un’adeguata organizzazione e una strategia.

1. Il principio della forza bruta

“Lasciateci avere meno armi e più istruzione” grida al mondo una donna araba (MERNISSI 2002: 199). Povera illusa: l’istruzione non ti dà alcun vantaggio e, se non disponi della forza necessaria a far valere le tue ragioni, a nulla serviranno le tue conoscenze.
Allo stesso modo che alle origini della storia, ancora oggi, nei rapporti sia fra gli individui che fra gli Stati, conta di più la forza delle armi che quella del diritto. È una storia che si ripete da cinquemila anni in qua, sempre diversa nei dettagli, ma uguale nella sostanza: un susseguirsi di centri di potere che sorgono, dominano su vaste aree del mondo e poi declinano, sempre in virtù del supremo principio della forza bruta. “Il mezzo per arrivare alla grandezza era (e ancora è) la conquista” (DURSCHMIED 2004: 466). Così è avvenuto per le grandi civiltà, che si sono certo imposte all’attenzione del mondo intero grazie alla loro superiorità culturale, ma se non si fossero armate non avrebbero potuto né affermarsi, né consolidarsi e durare. È grazie all’impiego della forza armata che hanno potuto affermarsi i fondatori di dinastie, i re, i faraoni, gli imperatori e i grandi signori, che hanno scritto le pagine più significative della storia degli uomini. Alcuni di essi sono rimasti giustamente famosi per avere promosso importanti riforme nel campo dell’ordinamento sociale e del diritto, come Hammurabi, Solone, Servio Tullio, Giustiniano, Napoleone, ma nessuna di queste riforme avrebbe avuto un futuro senza il sostegno delle armi.
Come ha ricordato Kant, non c’è diritto senza forza. Nessuna meraviglia dunque se, su “3740 anni di storia documentata solo 268 giorni sono trascorsi senza che ci fosse una guerra! Per capire la storia, è indispensabile capire la guerra, e le sue conseguenze” (Durschmied 2006: 462).