lunedì 10 agosto 2009

3. Le ragioni e le funzioni della guerra

Perché si ricorre all’uso della forza? Il fatto è che ciascuno di noi tende a legarsi alla propria cultura, alle proprie opinioni e ai propri interessi, e non è incline a mettersi in discussione. Ora, poiché non è dimostrabile, in modo oggettivo e incontrovertibile, la superiorità di una cultura rispetto ad un’altra, di un’opinione rispetto ad un’altra o di un interesse rispetto ad un altro, l’uomo si trova a dover scegliere fra due principali opzioni. La prima, l’opzione relativistica, si muove nello spirito del «vivi e lascia vivere», «non c’è una sola verità», «tutte le culture, tutte le opinioni, tutti gli interessi meritano rispetto, purché non sono di pregiudizio per altri». La seconda opzione si muove invece nella convinzione della superiorità assoluta di un Sé, della sua cultura, delle sue idee e dei suoi interessi. Ora, chi scelga questa seconda opzione, di norma, mira ad imporre la propria volontà a tutti gli altri e, se non ci riesce con mezzi pacifici, non esita a ricorrere alla forza. Alla fine, la forza diventa una sorta di giudice supremo con diritto di ultima parola. Tale era il senso del duello (quando questo costume era in uso: oggi è stato soppiantato dalla competizione e dalle vie legali) nei rapporti personali, e tale è sempre stata la guerra nei rapporti fra Stati. Nella guerra non contano le ragioni o le logiche di giustizia. Nella guerra conta solo l’esito finale. “Una guerra, per giustificata che sia, è sempre un errore se non è una guerra vinta” (ALTOMONTE 2003: 141). Alla fine, la ragione del vincitore è sempre la migliore. “La guerra è dunque un atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà” (CLAUSEWITZ I, 2).
È pressoché impossibile muovere guerra ad uno Stato che si ritenga pari, perché ciò equivarrebbe ad approvare che altri possano legittimamente muovere guerra contro di sé. Di norma, la guerra è generata e alimentata o da necessità vitali o da opportune ideologie di tipo nazionalistico o religioso, che portano a ritenere se stessi migliori di altri e gli stranieri tanto più barbari quanto più la loro cultura sia lontana dalla propria. Questo, chiamiamolo così, nazionalismo culturale o fondamentalismo religioso era stato notato già da Erodoto presso i persiani (I, 134), ma era presente anche presso i greci e, in generale, presso ogni popolazione che abbia fatto ricorso alle armi a scopo espansionistico. La regola è che per fare la guerra ci vuole un nemico. Ebbene, “Il Nemico è una creazione specifica dei movimenti nazionalisti e religiosi” (WALZER 2004: 130).
Una volta creato il nemico, il secondo passo è quello di imporgli la propria cultura e i propri interessi, se possibile con mezzi politici, altrimenti con la forza. La guerra è un atto estremo della politica, ma pur sempre un atto politico. Infatti, come osserva Clausewitz, “la condotta della guerra, nelle sue linee fondamentali, altro non è che la politica stessa, la quale depone la penna e impugna la spada” (VIII, 6b), ovvero “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi” (I, 24). [Oggi si dice la stessa cosa a proposito di quella particolare forma di guerra che è il terrorismo: anche il terrorismo “è una strategia politica scelta tra una gamma di diverse opzioni” (WALZER 2004: 129).]
Anche se i rapporti di forza cambiano, un vincitore c’è sempre ed ha sempre ragione. “La storia è scritta dai vincitori, e in modo tale da giustificare la loro interpretazione dei fatti” (SOLOMON 1999: 26). Gli esempi sono innumerevoli e di ogni tempo. Gli assiri avevano elaborato una teoria a giustificazione della loro superiorità rispetto a tutte le altre popolazioni, gli ebrei ritenevano di essere un popolo eletto da Dio per trionfare sul mondo, gli ateniesi giustificavano il loro imperialismo appellandosi alla legge naturale, secondo la quale il più forte e migliore deve dominare sui più deboli, i romani sostenevano che le loro guerre di conquista fossero meritori atti di civilizzazione, Carlomagno e i conquistadores spagnoli erano convinti di diffondere il messaggio cristiano, ossia l’unica vera fede, a popolazioni rozze e incivili, Hitler credeva che la razza ariana fosse superiore alle altre e che fosse giusto eliminare le razze inferiori.
Per decenni, dopo la caduta del fascismo, i vincitori hanno inneggiato alla Resistenza. Oggi i rapporti di forza sono cambiati, al punto che qualcuno può “far vedere l’altra faccia della medaglia” e cioè che anche la Resistenza ha le sue colpe, anch’essa ha i suoi scheletri nell’armadio, anch’essa ha delle macchie sulla coscienza. La differenza col Fascismo è che la Resistenza ha vinto, si è rivelata più forte e, attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione di massa, è la sola che può parlare e interpretare i fatti pubblicamente. Mussolini è stato trucidato e non può più difendersi. I fascisti hanno pagato la sconfitta non solo in termini di vite umane, di perdita dei beni e del potere, ma anche con la condanna al silenzio: “la parte che soccombe non paga soltanto le violenze che ha compiuto durante la guerra, ma anche il semplice fatto di non avere vinto” (PANSA 2003: 19).

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