lunedì 10 agosto 2009

13. Guerra e diritto

Non c’è diritto senza forza. Ce lo hanno ripetuto incessantemente, da Cicerone a Bobbio. È vero: se non si dispone di una forza adeguata, non si può imporre il rispetto della legge e, quindi, non può esserci un diritto. Ma c’è un limite a questa forza. Le armi di distruzioni di massa non servono al diritto: servono alla politica di potenza. Il diritto era adeguatamente supportato dalla forza anche nel mondo antico, ancor prima che gli uomini avessero imparato a lavorare il ferro. Se oggi decidessimo di smantellare tutti gli arsenali atomici, non per questo ci mancherebbe la forza necessaria a garantire il rispetto del diritto. Al servizio del diritto è sufficiente una forza modesta. La corsa agli armamenti in cui, da qualche secolo, sono impegnati gli Stati è finalizzata alla guerra, che, a sua volta, è finalizzata alla conquista e/o al predominio. Chi è più forte comanda e impone agli altri le sue norme e i suoi valori. Nietzsche lo aveva compreso benissimo: “I valori e le loro variazioni sono proporzionali alla crescita di potenza di chi pone il valore (1994: 14).
I valori espressi nel diritto non fanno eccezione: anche il diritto è sottoposto agli equilibri di forza. Ora, di fronte ad un quadro mondiale, in cui solo pochi Stati sono provvisti di armamenti atomici e solo una superpotenza è in grado di porsi al di sopra di ogni legge, il diritto non può che essere di parte. E, infatti, tutte le Convenzioni militari degli ultimi cento anni sono state redatte e ratificate sotto il pesante condizionamento degli USA, il che spiega perché non sono state vietate le bombe lanciate da aerei, le armi atomiche e nucleari (CASSESE 1994: 484), né è stata proibita la costruzione di armi ancora più sofisticate e distruttive che, proprio perché sono nuove, possono aggirare la legge. Così, ancora oggi il diritto internazionale è da ritenere ingiusto, perché “favorisce in larga misura gli Stati militarmente più potenti” (CASSESE 1994: 487). Finché nel mondo c’è squilibrio di forze e armi di sterminio e finché la guerra è un fenomeno endemico, il diritto non può che essere di parte e, dunque, non può che essere ingiusto. Infatti, dove c’è la guerra è la forza che impone e/o condiziona il diritto, mentre, dove impera il diritto la guerra non serve. In quanto implica l’uso indiscriminato della forza, la guerra dev’essere intesa “come la negazione stessa del diritto” (CASSESE 1994: 479). Sotto questo aspetto, guerra e diritto devono essere ritenuti incompatibili.
Per millenni, la guerra è stata ritenuta ineluttabile. Dopo l’affermazione del giusnaturalismo non è più così. A partire dall’età moderna, non sono rari coloro che condannano, in modo incondizionato, la guerra e riescono a concepire un mondo pacifico, come Erasmo, Bentham, Fichte, Kant e Saint-Simon. E non si tratta né di santi, né di visionari, bensì di persone concrete, di intellettuali seri e rispettati. Secondo Bobbio, dopo l’invenzione della bomba atomica, non ha più senso parlare di guerra giusta. “Non è più possibile distinguere guerre giuste da guerre ingiuste. Tutte le guerre sono ingiuste” (1997: X). Toynbee giunge ad affermare che “la guerra è una crudeltà di per sé, e unico rimedio ne è l’abolizione” (1981: 552). Nemmeno loro sono sognatori ingenui. Se si considera la tradizione millenaria favorevole alla guerra, è davvero rimarchevole il fatto che personaggi di elevata levatura culturale ne auspichino l’abolizione.
È vero: questi personaggi vengono, di solito, sbrigativamente, liquidati con l’accusa di essere dei poveri utopisti e di proporre modelli troppo fantasiosi e irrealizzabili. In realtà, dietro questo atteggiamento di supponente commiserazione si cela la mancanza assoluta di ragioni valide a favore della guerra. Oggi è facile constatare che i paesi democratici non si muovono guerra fra loro, semplicemente perché preferiscono la pace. È una questione culturale. Nulla ci vieta allora di immaginare un mondo in cui tutti i paesi siano democratici e decidano di gettare le armi e vivere in pace, in uno Stato di diritto. Ciò sta inducendo gli studiosi a ripensare la guerra e a considerarla non più come un evento ineludibile, ma come un male da scongiurare, e sono molti oggi a credere che un federalismo mondiale o la diffusione della democrazia rappresentino efficaci antidoti della guerra.
Non si sa fino a che punto questo cambiamento di rotta si sia prodotto spontaneamente o sia stato indotto dal timore di una guerra nucleare (BONANATE 2005: 118-9) e dal fenomeno del terrorismo, ma questo è secondario. Quello che è importante è che ci sia qualcuno capace di immaginare un mondo senza guerra. Ciò rende viva la speranza in un ravvedimento generale e nella concreta possibilità che, un giorno, l’uomo vorrà liberarsi delle armi di sterminio e conferire il potere sovrano ad un diritto concepito secondo criteri di giustizia.

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