lunedì 10 agosto 2009

5. La razzia

Nell’Iliade si combatte per l’onore e per la gloria, “ma l’essenza più concreta della vittoria, da cui deriva maggior prestigio al combattente, è il bottino di armi, di cavalli, di carri da guerra. Si combatte per uccidere il nemico, al quale la vita viene di rado risparmiata se si consegna prigioniero, e se questo accade è solo per ricavarne un riscatto conveniente in oro, argento, bronzo, cavalli, schiavi e schiave” (LONGO 2000: 201). Il principale scopo della guerra, in Omero, non è la conquista territoriale, bensì il bottino, e la ragione è semplice. I contendenti, infatti, non sono degli Stati grandi e impersonali, ma piuttosto dei singoli individui, che ricorrono alla guerra come mezzo per garantirsi un’esistenza agiata. Non è la Grecia che combatte contro Troia, ma sono Agamennone, Achille e tanti altri condottieri che guidano i loro uomini ad appropriarsi del tesori di Priamo. Agamennone e Achille comandano un contingente troppo esiguo per poter aspirare ad una conquista territoriale e devono limitare le loro mire al bottino. In fondo, per loro, la guerra è una sorta di lavoro, un modo come un altro per guadagnarsi da vivere, Aristotele vede nella guerra un mezzo legittimo per acquisire i beni dei barbari, che sono “uomini nati per ubbidire” (Politica 1256b23).
Questa stessa concezione la ritroviamo in Tucidide, il quale osserva che le azioni militari che si svolgono nel corso della guerra del Peloponneso vengono, almeno in parte, autofinanziate sottraendo risorse al nemico, perché Atene o Sparta non possono permettersi di mantenere a proprie spese tutti i soldati che combattono dalla propria parte, soprattutto se si tratta di mercenari. La guerra, in questo caso, non prescinde dalla razzia, ma si serve, deliberatamente, di essa per gli scopi contingenti, che sono quelli di sostentare le truppe. Un esempio: un contingente di 1300 mercenari traci, che sono giunti ad Atene in ritardo per poter essere imbarcati alla volta della Sicilia, vengono affidati allo stratego Diitrefe, affinché provveda al loro rimpatrio e, per evitare di dover corrispondere il salario pattuito di una dracma al giorno, si stabilisce di offrire a quegli uomini delle occasioni di razzia (Storie VII, 28-30). È la dimostrazione di come una banda di uomini armati possa procurarsi dei beni, sottraendoli ad altri con la forza, anche a costo di ucciderli, una sorta di guerra-lavoro, con la complicità dello Stato: tutto alla luce del sole. Un altro esempio: il pio Nicia conquista la città sicana di Iccara e poi vende gli schiavi così catturati per autofinanziare la guerra in corso (Storie VI 62,3-4). In linea con questa visione economica della guerra, i greci si limitano ad uccidere solo gli uomini adulti (dei vecchi in genere non si parla, ma è probabile che anch’essi vengano soppressi), mentre donne e bambini sono fatti schiavi. Di norma, anche gli animali vengono risparmiati e considerati parte del bottino (LONGO 2000: 184-5).
Questa «guerra-lavoro» non solo è considerata legittima, ma gode anche di prestigio: essa è una nobile attività che, oltre a conferire benessere e ricchezza, rende illustre colui che la pratica con successo. Per i greci, non c’è nulla di più naturale della guerra. Secondo Eraclito, “Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte è re” (B 53). Anche i sofisti credono nella legge del più forte e un loro esponente così scrive: “Naturale è che non il più forte sia ostacolato dal più debole, ma il più debole sia dal più forte comandato e condotto; e il più forte guidi, il più debole segua” (Gorgia, Elena 6) (ROSEN 1999: 63). Ancora per Platone e Aristotele, la guerra è, essenzialmente, “l’arte di acquisire con la forza mezzi supplementari per vivere, sotto forma di sostentamento, di denaro o di agenti produttori” (GARLAN 1991: 59). È ritenuto del tutto naturale, dunque, che gli Ateniesi pretendano dalle città sottomesse il seguente giuramento: “pagherò agli ateniesi il tributo che li avrò persuasi a fissare e sarò il migliore alleato possibile e quello più fedele; andrò in soccorso del popolo degli ateniesi e lo difenderò se qualcuno facesse un torto al popolo degli ateniesi, e ubbidirò al popolo degli ateniesi” (BRULÉ 1997: 115).

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