lunedì 10 agosto 2009

9. Tentativi di giustificare la guerra

L’opinione cara ai greci, secondo cui la guerra va accettata per se stessa, perché è bene che il più forte domini sul più debole, è apparsa col tempo poco soddisfacente e, così, molti studiosi hanno cercato il modo di giustificarla, accostandola ora alla politica, ora al diritto. Ma il tentativo più radicale di condannare la guerra è rappresentato dal pensiero di Cristo. Il suo invito a riporre la spada e a porgere l’altra guancia, la sua opposizione radicale all’uso della forza costituisce una profonda rottura col passato. Benché poi il messaggio di Cristo abbia trovato ampia diffusione nel mondo, il suo pacifismo incondizionato ha avuto seguito fra i cristiani solo per poco tempo, fino a quando cioè essi hanno costituito la parte debole della società. Fino ad allora i cristiani si sono mossi come pecore in mezzo ai lupi e si sono immolati, senza opporre resistenza, per non rinnegare la propria fede. Ma dopo essere stato proclamato religione di Stato, il cristianesimo ha mischiato i suoi interessi con quelli della politica e ha fatto propria la logica della guerra, questa volta senza preoccuparsi di rinnegare il proprio Signore.
Sant’Agostino (354-430) inaugura la tradizione cristiana di giustificazione della guerra. Per il vescovo d’Ippona, gli uomini si combattono per raggiungere uno stato di pace: lo scopo della guerra è la pace (Città di Dio XIX 12,1). La guerra viene giustificata da questo scopo, che è nobile. Da lì in avanti, per i cristiani, la guerra è ritenuta giusta se è sostenuta da una causa giusta e se è condotta senza eccessi. Per Tommaso d’Aquino (1225-1274) e Francisco de Vitoria (1483-1546), una guerra è giusta quando è dichiarata dall’autorità costituita, deriva da una giusta causa e mira a riparare i torti e le ingiustizie e a promuovere il bene. In questo modo si assimila la guerra ad una procedura giudiziaria. “Ma – osserva Bobbio – il risultato della guerra è proprio l’opposto: è quello di dar ragione a chi vince” (1997: 59).
San Bernardo di Chiaravalle si rivolge al nascente ordine dei Templari con queste parole: “Il cavaliere di Cristo uccide con tranquilla coscienza e muore con anche maggior sicurezza. Morendo favorisce se stesso, uccidendo favorisce Cristo” (DE MATTEI 2002: 90). Le crociate sono promosse anche da papi, che saranno elevati agli onori dell’altare, come Urbano II, Pio V e Innocenzo XI. Alla crociata fanno appello anche santa Caterina e santa Brigida nel XIV secolo. Rimane il vecchio interrogativo: come conciliare la legittimità della guerra con il comandamento di non uccidere? La dottrina della chiesa risponde che “il precetto non si riferisce all’uccisione in se stessa, ma all’assassinio dell’innocente” (DE MATTEI 2002: 22). Così, uccidere un nemico nel corso di una guerra giusta oppure eseguire una pena capitale ordinata dallo Stato è, secondo la chiesa, cosa lecita.
Anche l’Islam comanda di “combattere coloro che non credono in Dio” (Corano 9,29) e, in questo modo, offre una legittimazione alla guerra santa (jihad).
In ogni caso, la guerra che viene giustificata “è, si badi bene, una guerra offensiva. La guerra difensiva rientra nel diritto naturale dell’uomo alla legittima difesa e non ha bisogno per i nostri autori di essere giuridicamente e teologicamente giustificata (DE MATTEI 2002: 19). Per quel che concerne il tipo di arma, generalmente la questione viene ritenuta di secondaria importanza: di fatto, anche le armi di sterminio possono essere impiegate nel corso di una guerra giusta, ma solo “come estrema legittima difesa” (DE MATTEI 2002: 35).
A maggior ragione, la guerra è stata giustificata dai pensatori laici, moderni e contemporanei, che tendono a considerarla come un tratto strutturale della storia e della natura umana. Machiavelli vede in essa uno strumento della politica, Grozio uno strumento del diritto, Hobbes un fatto naturale, Hegel la giudica un tratto distintivo e necessario dello Stato sovrano, Nietzsche ne esalta la bellezza. Tutti convengono sulla sua ineluttabilità. Secondo questi studiosi, la guerra sarebbe un tratto strutturale della natura umana, un male inevitabile col quale occorre convivere. Anche le società tribali, infatti, hanno avvertito il bisogno della guerra, che sarebbe loro servita sia per preservare la propria identità di gruppo sia per rinforzare i vincoli di solidarietà fra i membri della tribù e mantenere la coesione sociale. “Insomma, la guerra è lo strumento che permette di avere la pace interna, e ciò significa che l’uomo non può sfuggire alla violenza: è condannato a scegliere fra la guerra intratribale e la guerra intertribale” (PELLICANI 1998: 786).
Ma qualcuno, andando oltre ogni possibile immaginazione, ha ritenuto di dover osannare la guerra, di tesserne un elogio sperticato. Mi riferisco al giornalista Massimo Fini, secondo il quale, la guerra svolge importanti e positive funzioni. “L’uomo – scrive Fini – teme la guerra, ma ne è anche attratto. Ne ha orrore, ma ne subisce il fascino (1999: 15). La guerra serve per risolvere anche i conflitti più intricati (p. 21), “favorisce il ricambio delle classi dirigenti” (p. 22), esercita un controllo della crescita demografica (p. 25), stimola il progresso tecnico (p. 28), “soddisfa alcune pulsioni esistenziali presenti nell’uomo” (p. 37), rafforza la solidarietà (p. 76), induce “ad amare e apprezzare la vita” (p. 83). Da quando l’uomo si sente minacciato dalle armi atomiche non può dare libero sfogo alla sua naturale aggressività e si vede costretto ad una pace coatta, con rischi, che Fini definisce preoccupanti. La pace coatta “si è ritorta contro di noi sotto forma di perdita di solidarietà, individuale e collettiva, di solitudine, di criminalità diffusa, di senso di impotenza, di noia, di frustrazione, di nevrosi, di malattia, di impulsi autodistruttivi, di suicidio, di droga” (FINI 1999: 130). Non so se Fini abbia mai partecipato ad una guerra o se ne abbia visto gli orrori. Se così fosse, mi inchino davanti alla sua esperienza. Ma se così non è, vorrei che riscrivesse il suo libro dopo una prova sul campo.

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