lunedì 10 agosto 2009

15. Il caso Bush: la forza in primo piano

La guerra mossa dal presidente americano Bush all’Iraq di Saddam (2003), nonostante la volontà contraria dell’Onu, rappresenta una chiara dimostrazione dell’assunto che, senza la forza delle armi, l’America non avrebbe avuto alcuna possibilità di imporre la sua «superiore» cultura all’Iraq. Allo stesso modo è lecito credere che, a parti invertite, se cioè fosse stato l’Iraq a disporre di una schiacciante superiorità militare, sarebbe stato Bush a dover subire l’azione civilizzatrice di Saddam. Un Saddam più forte non avrebbe esitato a sostenere la superiorità della propria cultura e a proclamarsi benemerito paladino dell’Islam, l’uomo buono e giusto che combatte contro l’asse del male, ossia contro la democrazia capitalistica di Bush e dei suoi alleati. Ciò basta a dimostrare che non è possibile dimostrare, col semplice ragionamento, la superiorità di un sistema culturale rispetto ad un altro. Infatti, finché dietro le parole c’è la forza, spesso è questa che stabilisce le ragioni e i torti, le gerarchie delle culture e le norme del diritto. Il fatto è che pochi sono disposti ad accettare la superiorità delle idee di un altro, a meno che non siano indotti a farlo con la forza, e pertanto, chiunque ritenga di essere rappresentante di una cultura «superiore» meritevole di essere condivisa da tutti gli altri con le buone o con le cattive, è un illuso.
Se Bush non avesse avuto una forza militare superiore, non avrebbe potuto permettersi di esprimere giudizi perentori sul livello tecnico e morale di paesi diversi dal suo, non avrebbe potuto permettersi di definire «canaglia» quegli Stati che volevano rimanere legati ai propri valori e non accettavano di americanizzarsi. Se Bush non avesse avuto le portaerei, i bombardieri, i missili e le armi atomiche, certo non avrebbe osato affermare pubblicamente la propria volontà di esportare il «superiore» modello capitalistico americano alle popolazioni di fede islamica o ai paesi comunisti.
Oggi, grazie proprio alla propria superiorità militare, gli Usa hanno potuto permettersi di introdurre nel lessico della politica un’idea che mai in precedenza un uomo avrebbe osato immaginare: l’idea di «guerra preventiva», ossia la facoltà di alcune nazioni di intentare unilateralmente un’azione di guerra contro un’altra nazione prima che questa diventi troppo pericolosa. Il primo conflitto contro l’Iraq non è stato il solo in tal senso. Secondo Krippendorff, delle guerre che gli Usa hanno condotto contro l’Inghilterra (1812), il Messico (1846-8), la Spagna (1898), in occasione della prima (1917-8) e seconda guerra mondiale (1941-5), la Corea (1950-2), il Vietnam (1960-75), nessuna era una guerra a difesa dell’integrità fisica e politica del proprio paese (2008: 112). Ora, se una guerra non viene mossa a scopo di difesa, è evidente che viene mossa per altre ragioni che, il più delle volte, sono ragioni economiche e di potere. Per quanto possa apparire strano, le guerre contemporanee evocano le guerre di razzia che clan e tribù si muovevano migliaia di anni fa. “L’uso della forza per appropriarsi della ricchezza non è cessato con l’età della macchina a vapore” (Toffler 1991: 52). Il che sta a significare che l’uomo impara poco dalle sue esperienze.
Da parte loro, oggi, i paesi «deboli» devono scegliere fra due possibili alternative: o si piegano alla forza americana e accettano le regole della loro democrazia, oppure mostrano i denti e resistono, con tutti i rischi del caso, come embarghi, colpi di Stato, attacchi armati, esclusione dai giri che contano. Generalmente, la prima alternativa costituisce una scelta obbligata per i paesi poveri, a basso tenore di organizzazione ed istruzione, ma, difficilmente, un paese, islamico o comunista che sia, ricco e industrializzato, accetterà di rinnegare le proprie radici culturali senza lottare. Anzi, difficilmente, un paese, islamico o comunista, ricco e industrializzato, accetterà di essere considerato di livello culturale inferiore e rinuncerà non solo a resistere, ma anche a dimostrare la propria «superiorità» e a proporsi come cultura mondiale egemone in alternativa a quella americana. E lo può fare in due modi diversi: o, come stanno facendo Iran e Corea del Nord, attraverso una specifica politica di governo, che renda manifesta la propria volontà di dotarsi di armamenti nucleari, allo scopo di cautelarsi da eventuali azioni armate da parte degli Stati Uniti e, quindi, almeno di preservare il proprio sistema politico-culturale; oppure, com’è il caso di Afghanistan e Cecenia, favorendo lo sviluppo di organizzazioni terroristiche, con ramificazioni a livello internazionale. Nel caso dell’organizzazione terroristica, lo scopo principale non è tanto quello di cautelare un paese da eventuali azioni armate da parte degli Stati Uniti, quanto quello di mandare in crisi, indebolire e, in un secondo tempo, abbattere il sistema americano per poi sostituirlo con un altro sistema.

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